Un libro belloassai

“Il signore delle mosche” è un romanzo dello scrittore britannico William Golding, premio Nobel per la Letteratura nel 1983 – ed è un libro BELLOASSAI.

I libri belliassai sono quelli che non hanno bisogno della critica letteraria per essere apprezzati. Anzi, qualora uno si provi a commentare un libro belloassai, inevitabilmente sbaglia e, in qualche modo, lo impoverisce.

Difatti, un libro belloassai è BELLO, ma talmente bello che parla DA SOLO, si difende benissimo da sé.

Un libro belloassai ha bisogno che voi vi mettiate belli stesi sul divano, circondati della copertina con le gocce colorate che avete acquistato sette anni orsono da Tiger a Trieste (viale XX settembre), e cominciate a LEGGERE. Una volta che voi abbiate finito di leggerlo, il libro belloassai ha bisogno che andiate da un amico, gli bussiate sulla spalla e gli diciate:

  • Ciao. Ho letto un libro BELLOASSAI. Tieni, te lo presto. Leggilo anche tu.

Un libro belloassai, inoltre, nel mio caso bisogna averlo tra le dita, perché io sono quel che una persona gentile definirebbe “lettore vintage”, e una persona realista definirebbe “lettore obsoleto”. Senza un libro tra le dita, senza il dondolio indolente con cui giro una pagina, e poi un’altra, e poi un’altra ancora, io non mi concentro.

Infine, un libro belloassai è difatti belloassai quando la scrittura di cui è intessuto, a un certo punto, arriva a confondersi con la trama – al punto che non sai dove finisce la bellezza dello stile e dove comincia l’importanza degli eventi, dei fatti, che quello stile ci sta narrando.

È il caso de “Il signore delle mosche”.

La trama de “Il signore delle mosche”: un gruppo di bambini inglesi finisce su un’isola deserta a seguito di un incidente aereo. Bisogna organizzare il da farsi per sopravvivere, sperare di essere salvati e tornare a casa.

L’incidente aereo non viene mai raccontato nel dettaglio: vi sono pochissimi elementi che ce lo suggeriscono. Un aereo, un megafono, l’uomo col megafono. Questi pochi indizi fanno sì che l’incidente sembri quasi un sogno.

L’isola su cui capitano i bambini, invece, è ASSAI REALE – ed è una dei protagonisti del romanzo stesso.

All’inizio l’isola è un Eldorado: un rigoglio di verdi rampicanti e blocchi di marmo rosa, circondato dall’indolenza dell’oceano Pacifico, a sua volta bagnato di sole e circondato da un orizzonte di un blu duro. La sabbia è morbida e finissima, ovunque c’è solo modo di divertirsi e nuotare liberi, senza che vi sia un “grande” in giro. I grandi sono gli adulti.

Tuttavia, col crescendo delle pagine, i bambini devono cominciare a fare cose da grandi.

Bisogna procurarsi del cibo (-Abbiamo bisogno di carne! – è il primo mantra del libro), bisogna costruire dei rifugi sulla spiaggia, al riparo dalla cosa nera e strisciante che pare abiti la foresta fitta – o, forse, solo il sonno dei “piccoli“- bisogna – Tenere vivo il fuoco! – (secondo mantra del libro), perché faccia fumo, perché i grandi giungano a salvarli.

I due mantra sono ripetuti da i due antagonisti del gruppo, Jack e Ralph. Jack è il selvaggio, l’istinto animale, la crudeltà vera della natura che se ne frega e travolge: -Abbiamo bisogno di carne! -. Ralph è la ragione, la civiltà, l’organizzazione: -Bisogna tenere vivo il fuoco!

Ralph è anche il vero protagonista del romanzo. È il personaggio che muta più di tutti, dall’inizio del libro, in cui è un bambino (l’incipit del romanzo racconta proprio di un bambino biondo che si fa strada sull’isola), al mezzo del libro, quando viene nominato capo e deve chiamare le adunate – cioè le assemblee con cui i bambini si riuniscono per decidere sul da farsi. Fino alla fine del libro, quando è diventato più o meno bruscamente grande, e deve sottrarsi furiosamente alla furia di una natura che invece non è mutata, ma si è fatta – se possibile – ancora più minacciosa, sinistra, malvagia, una natura che non perdona.

Le pagine più belle del romanzo sono quelle in cui viene descritto lo stato d’animo di Ralph, che è in bilico tra la sua bambinosità e questo mondo dei grandi, al limitare tra l’ingenuità sicura dell’infanzia – la stessa che, all’inizio, ritrova nella libertà di nuotare in quelle acque cristalline dell’isola – e il mondo ignoto degli adulti, quello greve di responsabilità, quello in cui bisogna prendere decisioni anche scomode.

Tutto questo accade – e, in effetti, non accade – perché, in tutto il libro, non succede quasi nulla per quanto riguarda l’azione – nel mezzo di un’isola che si trasforma a sua volta in tutto il corso del romanzo, da Eldorado a luogo impervio e sinistro, fonte di creature minacciose. Leggendo dell’isola, si arriva a un punto in cui non si capisce quale sia il confine tra la fisicità di un luogo – l’isola, appunto – e lo stato d’animo dei bambini.

Non sai più se stai leggendo delle liane e delle rocce delle spiagge o dei tormenti di Ralph, delle paure di Piggy, della misticità di Simone, della crudeltà purissima di Jack, o degli incubi dei bambini.

E questa continua confusione tra isola e animo, tra natura e civiltà è resa benissimo da uno stile piano, asciutto, che non si perde in fronzoli e racconta – a volte con metafore molto potenti – un’isola in cui non succede niente.

Fino alle penultime pagine, quando l’azione prende il sopravvento, e bisogna solo correre e correre e correre, a perdifiato, verso il mare, verso la libertà, per sfuggire alla malvagità.

Ma niente spoiler.

Insomma, amici.

A febbraio ho letto un libro BELLOASSAI.

Questo libro si chiama “Il signore delle mosche”, di William Goldwin, premio Nobel per la Letteratura nel 1983.

Fate conto che abbia bussato alla vostra spalla virtuale e ve lo abbia prestato. Voi, leggetelo.

Credits: /https://create.vista.com/it/unlimited/stock-photos/475815808/stock-photo-fly-isolated-white-background/

Leave a comment